STUPIDA RAZZA

lunedì 10 ottobre 2022

la globalizzazione va capita bene e reinterpretata

 

«L a nuova fase della globalizzazione sarà probabilmente selettiva: un’integrazione per blocchi di Paesi legati da affinità elettive di tipo non solo economico, ma anche politico e sociale». Gianmarco Ottaviano costruisce una analisi della “riglobalizzazione” che evidenzia le intersezioni fra campi differenti. Lo fa in maniera nitida e chiara, con una evoluzione editoriale più strutturata rispetto alla rapidità degli articoli scritti per «Il Sole 24 Ore», lavoce.info e «E&Mplus». Uno dei punti interpretativi è la gradualità e il gradualismo degli effetti, seppur nella radicalità delle cause: «Non ci sarà una vera e propria deglobalizzazione, ma la globalizzazione come la conosciamo sarà ridisegnata. La guerra in Ucraina ha fatto emergere con particolare violenza le tensioni restate finora sotterranee tra «libertà di scambio» e «libertà di scelta» che caratterizzano molte interazioni tra Paesi con culture economiche, politiche e sociali spesso molto diverse e apparentemente difficili da conciliare», scrive l’autore. Ottaviano, dunque, sottolinea la crescente importanza degli elementi civili e politici, valorizzando la componente culturale. La sequenza traumatica scandita dalla Grande Crisi del 2008, dalla crisi dei debiti sovrani del 2011, dalla pandemia e ora dalla guerra in Ucraina ha costruito un senso della realtà in cui la competizione economica è diventata un elemento meno distinguibile rispetto alle altre variabili storiche. E, quindi, Ottaviano prevede che «l’esito più probabile di questa riconfigurazione strategica a livello mondiale non sembra poter essere tanto la deglobalizzazione temuta o auspicata da molti commentatori, quanto una «riglobalizzazione selettiva», una ridefinizione cioè dell’economia globale per gruppi integrati di Paesi affini, coalizioni in competizione tra loro per l’egemonia economica, politica e culturale, sullo sfondo di un riequilibrio di forze tra Paesi industrializzati occidentali e Paesi emergenti, soprattutto asiatici». Ottaviano non arriva a riscrivere le gerarchie delle ragioni pratiche della modernità, ossia le separate e distinte scienze sociali: da economista, spiega con precisione divulgativa valida anche per un pubblico di non specialisti, la traiettoria della manifattura e dei servizi nella loro ambigua e vitale essenzialità per ogni economia avanzata (in particolare occidentale) e le conseguenze dell’ingresso dei nuovi protagonisti nel Wto (per esempio, la Russia nel 2012). Non sconfessa il primato ermeneutico all’economia, ma ricorre anche alle altre forme di ragion pratica (in particolare la scienza politica e la storia della cultura) per capire le evoluzioni di lunga durata del mondo contemporaneo. Nella sua urgenza di descrivere e capire le direzioni di fenomeni insieme carsici e sotterranei e allo stesso tempo visibili e fragorosi come l’ascesa della Cina, l’indebolimento dell’Occidente e lo spaesamento dell’Europa, adopera appunto la chiave culturale e politica. La sua critica alle istituzioni economiche internazionali non si limita allo scrutinio dei loro metodi e dei loro risultati: «Mentre il baricentro della politica e dell’economia mondiale si sposta sempre più verso i Paesi emergenti, la percezione diffusa è che l’Onu, ma ancor più il Fondo Monetario e la Banca Mondiale, continuino a ragionare troppo spesso secondo le categorie del secondo dopoguerra, quando gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali ne avevano progettato la nascita. Da qui la difficoltà dell’Onu nel capire e gestire, per esempio, le derive seguite alla primavera araba in Nordafrica e Medio Oriente o alla crisi ucraina. Da qui anche la prolungata impasse del Fondo Monetario e della Banca Mondiale di fronte alle richieste di maggiore spazio provenienti dalle economie emergenti, piccole o grandi che siano», nota Ottaviano. Il suo è un libro abbastanza anomalo per il mercato editoriale italiano. Prima di tutto perché questo breve saggio esprime dei punti di vista in maniera diretta, quando nella nostra tradizione prevale una presunta “rotondità” di pensiero che spesso trascolora le interpretazioni. In secondo luogo perché è chiaro e a tratti divertente: «Gli analisti economici non sempre – qualcuno direbbe quasi mai – ci prendono», scrive con autoironia non proprio diffusa fra i suoi colleghi. Infine perché ha un senso compiuto e una coerenza interna: non è – come di solito capita con gli economisti di professione quando si misurano con questo genere di libro – né una versione edulcorata e annacquata di paper tecnici da riviste internazionali né una semplice collazione di articoli già pubblicati.

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