STUPIDA RAZZA

giovedì 20 gennaio 2022

Contro la tristezza imparate a dire «grazie»

 

Il monaco Evagrio Pontico aveva messo la tristezza fra i vizi capitali. Dio non ama i lagnosi, pensava. Ma noi abbiamo uno strumento formidabile per sconfiggerla: dire «grazie». Grazie per l’aria, per il sole, per i biscotti della colazione. Per tutto. La gratitudine protegge le arterie e fortifica il sistema immunitario.Gli altri vizi dopo l’i nv id i a sono ira, lussuria, avarizia, prodigalità, gola e accidia. Nella lista originale di padre Evagrio Pontico, il monaco padre del deserto che per primo li ha elencati, c’era anche la tristizia. Si chiamano capitali perché da loro derivano tutti gli altri. Ognuno di loro è una deformazione patologica di una struttura assolutamente fisiologica, di un sistema motivazionale innato, geneticamente predisposto a salvare la nostra vita e indirizzarla. Avrebbe fatto eccezione a questa regola la tristezza, che non è l’esasperazione deformata di un qualcosa di fisiologico. Il fatto che fosse stata inserita nelle colpe si può considerare una crudeltà, oppure un’infi - nita forma di saggezza? Si sta parlando della tristezza priva di una causa specifica: quella che noi oggi chiamiamo depressione. Chi ama veramente Dio, ha il cuore colmo di letizia, quindi la tristezza potrebbe essere considerata come un sintomo della mancanza di capacità di sforzarsi ad amare Dio. Questo tipo di tristezza, privo di una causa specifica, non è mai descritto né nella Bibbia né nelle cronache del Medioevo, che, entrambe, descrivono popoli di fortissima fede. È descritto il dolore, è descritta la disperazione, perché c’è stata la sconfitta, la morte, la deportazione, perché Rachele piange i suoi figli uccisi e non vuole essere consolata. Qui si sta parlando di qualcosa di diverso: della tristezza senza causa, la depressione, appunto. Dal punto di vista pratico è possibile contrastare la depressione, ma solo nelle sue fasi iniziali. È possibile che il santo padre del deserto, autore della lista dei vizi, abbia potuto osservare, durante i suoi anni di vita monastica, due innegabili fenomeni. La tristezza priva di una causa specifica rischia di essere progressiva. Dalla depressione lieve si passa a quella media, da quella media si può passare a quella grave, che è una vera e propria malattia invalidante. La depressione lieve, però, si può combattere. Occorre rifiutarsi di eseguire i suggerimenti della depressione, che ci spinge a non fare nulla, alzarci tardi al mattino, a non sorridere mai, a rinchiuderci. Se però noi riusciamo ad alzarci presto al mattino, ci costringiamo a uscire, a fare, a sorridere, allora la depressione moderata non diventa media ma scompa re. Hanno dimostrato i neurobiologi che il collegamento tra il nostro stato emotivo e la mimica corre nelle due direzioni. Una persona contenta sorride. Una persona che si stia sforzando di sorridere, dopo un po’ si rasserena. Si racconta che in alcuni monasteri era richiesta la disciplina del sorriso. Dopo la morte di mio padre, mia madre fu costretta a riprendere immediatamente il suo lavoro di maestra. Non poteva raccontare il suo dolore a dei bimbi di otto anni ed era costretta a sorridere molto. Dopo un po’ si sentiva bene. Il sorriso dei bambini riempiva la sua mente. Gli attori che recitano parti dove devono sorridere molto hanno un umore migliore di quelli che recitano parti disperate, che aspettano Godot o che hanno assassinato Desdemona. Esiste quindi un’autod isciplina del sorriso. A questo si aggiunge che le nostre emozioni negative sono contagiose, e questa è la seconda osservazione che il santo padre deve aver fatto. Una persona triste o depressa può contagiare con il buio che porta dentro tutti coloro che la circondano. Ascoltare lamentele per più di trenta minuti secondo alcuni neurobiologi spegne alcune aree celebrali. A questo si aggiunge l’e f fetto nocebo: se parlo per mezz’o ra del mio dolore alla schiena, questo dolore occupa tutta la mia mente e lo percepisco in maniera molto più drammatica. L’effetto nocebo è il contrario dell’effetto placebo: consiste nello stare peggio se penso ai miei guai o ne parlo, mentre l’effetto placebo mi fa sentire meglio se mi sento amata e curata. Parlare del mio mal di schiena lo peggiora e affligge il prossimo. Che ho mal di schiena lo si può dire al fisioterapista o all’ortopedico: così non mi sto lamentando, sto risolvendo il problema. Se ne parlo a mio marito, soprattutto dopo venti minuti, è lamentazione sterile. Uno strazio. Lamentarsi è spesso il difetto di noi fanciulle. Piantiamola, e, qualsiasi sia il problema, niente lamentazioni con i nostri figli. Mai. Non lamentarsi mai del proprio coniuge, perché solo i deficienti sposano i cretini. Parlare male del proprio coniuge non ci dà u n’aria intelligente. Farlo con i propri figli è una vigliaccata. Da qui deduciamo l’undicesi - mo comandamento: non lamentarti mai. Peggiora il tuo stato mentale e fa stare malissimo gli altri. Inoltre lamentarsi costringe a levare l’atten - zione da quello che sta funzionando - per il solo fatto che siamo vivi qualcosa sta funzionando - e porlo su quello che non funziona. Padre Evagrio Pontico do - veva essere assolutamente certo che Dio nella sua infinita misericordia perdona i peccatori pentiti, ma detesta i lagnosi. È evidente che nel suo periodo in monastero deve avere convissuto con un qualche altro monaco depresso e lamentoso per un tempo che deve essere sembrato infinito, dopodiché se ne è andato a fare l’eremita in mezzo al deserto del Sinai sotto silenziose stelle. La prevenzione della tristezza è la gratitudine, termine che contiene la parola grazia. Ringraziamo di qualsiasi cosa: il nostro respiro, esiste l’aria, i nostri occhi, esiste la luce. E la tristezza sparirà. Diciamo grazie per ogni cosa, per aver dormito in un letto pulito in una stanza non bombardata, per le nostre cucine dove riscaldiamo il latte, per i biscotti nella credenza, per gli occhi per guardare, e se non li abbiamo, per il respiro. «Grazie» è la preghiera più corta e straordinariamente efficace. La gratitudine ci dà un assetto di neurotrasmettitori perfetto, protegge le nostre arterie, potenzia il sistema immunitario. Silenziosa sorella della depressione è l’accidia, viene dal greco akedia, negligenza, composto dalla «a» privativa, che significa «senza», e kedia, cura: senza cura. L’accidia nasce da una tendenza fisiologica: fare il meno possibile. Questa può essere l’unica strada per la sopravvivenza dove si combatta con la fame e ci sia necessità di risparmiare calorie, e dove si sia costretti a una fatica bestiale e sia necessario approfittare di ogni riposo. Durante le carestie, nei gulag, nei lager, nessuno impiegava l’eventuale tempo libero a fare sforzi. Anche il leone, quando non insegue la gazzella, dorme sotto un baobab, non fa esercizi inutili. Ma il resto del tempo è pieno di azione. Altrettanto vero è che, dove non esista il problema della fame e della fatica e si passino ore sul divano, la mente e il corpo devono muoversi, perché l’im - mobilità per loro è danno. Gli animali dello zoo, privi di predatori e forniti di pasti regolari, stanno malissimo, spesso non riescono nemmeno a riprodursi. La noia è una situazione faticosissima e distruttiva per la nostra mente, come anche la passività di chi guarda sempre la televisione. Non solo gli esseri umani, ma addirittura gli animali hanno inventato il gioco, una qualche attività priva di scopo pratico, proprio perché l’accidia, come ogni deformazione, si autoalimenta e peggiora, inaridisce e crea il deserto. Nel momento in cui è considerato una colpa, nel momento in cui è rimproverata, l’acci - dia può essere messa a fuoco per quello che è veramente: un problema drammatico che può diventare tragico, mentre invece è risolvibile. Uno che non fa niente non sta dando fastidio a nessuno, perché colpevolizzarlo? Perché sta sprecando il tempo e il tempo è un dono di Dio, ed è un dono che non può essere più recuperato. Noi infatti veniamo al mondo non solo per non fare il male, ma per fare il bene. Perché fare il bene ci fa bene, mentre rimbecillirci facendo zapping fa male al nostro corpo e alla nostra anima. L’accidia è il ventenne che invece di vivere si fa di spinelli o eroina, il farsi scorrere la vita addosso come l’acqua su un sasso, in attesa che un domani dopo l’altro si arrivi alla morte che fermi un vita inutile. È più divertente morire per qualche cosa che vivere per nulla. E i padri del deserto? Loro non stavano seduti sotto le stelle o sotto il sole a guardare il nulla? Non era un fare niente. Loro pregavano. E questo salva il m o n d o.



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