STUPIDA RAZZA

domenica 3 luglio 2022

Il default dello Sri Lanka sarà il canarino nella miniera del debito

 

I l doppio shock della guerra in Ucraina e della svolta nelle politiche monetarie dei Paesi avanzati pone nuovamente al centro dell’attenzione il problema del debito accumulato dopo la Grande crisi finanziaria e soprattutto dopo la pandemia. Ovviamente, i primi a essere colpiti sono i Paesi più indebitati e nel mirino c’è subito il debito sovrano: non a caso lo spread dell’Italia e di altri partner europei ha già raggiunto un livello che non si vedeva dal 2012. Ovviamente, ancora più ampio e delicato è il problema posto dal debito degli emergenti che è complessivamente raddoppiato dal 2008. Già da tempo i dowgrade sono frequenti e tre Paesi (Ghana, Etiopia, Zambia) hanno chiesto le misure di debt relief previste dagli accordi internazionali e uno, lo Sri Lanka, ha fatto recentemente default. Piccoli focolai di crisi, si dirà. Ma poiché molti altri Paesi sono vicini a condizioni critiche, il rischio che questi diventino un incendio devastante, minando seriamente la stabilità finanziaria globale, è tutt’altro che remoto. Stiamo parlando di un gruppo di economie che complessivamente rappresenta il 40% del prodotto mondiale. Le situazioni sono ovviamente differenti perché i Paesi produttori di petrolio o di merci che si sono apprezzate sensibilmente negli ultimi tempi, si trovano in condizioni migliori, ma per tutti gli altri le prospettive sono fosche, soprattutto dopo la svolta della politica monetaria americana che, fra l’altro, favorendo l’apprezzamento del dollaro, aumenta ulteriormente il peso del debito estero. E la frenata del commercio mondiale ovviamente non aiuta, perché riduce il flusso di valute pregiate, indispensabili per il servizio del debito estero. Del resto, la crisi del debito internazionale degli anni Ottanta, che colpì con ugual violenza l’America Latina e l’Est Europa, ha dimostrato quanto i Paesi più indebitati risentano delle svolte storiche della Fed. Il mercato è infatti molto nervoso: secondo il Fondo monetario internazionale, negli ultimi due anni gli spread per il debito sovrano con rating uguale o inferiore a B sono aumentati di circa 1.000 punti base, cioè 10 punti percentuali. Questo dà un’idea delle perdite che i possessori del vecchio debito hanno già subìto e dell’impossibilità pratica di rinnovare il debito in scadenza. Dunque, l’anticamera dell’insostenibilità. Che non può che aggravarsi perché il rapporto fra debito pubblico e Pil dei Paesi emergenti è destinato a crescere di altri sette punti di qui al 2026, contro una netta riduzione per i Paesi avanzati. Ovviamente, il problema non riguarda solo il debito internazionale, ma quello totale accumulato dai Paesi emergenti (arrivato al 248% del Pil) e in particolare quello pubblico, salito al 67%, più del doppio rispetto ai livelli degli anni precedenti la Grande crisi finanziaria. E questo debito è stato in larga parte finanziato da banche domestiche, che detengono quasi un quinto del totale, contro una media inferiore al 10% per i Paesi avanzati. In valori assoluti, l’esposizione delle banche è aumentata dal 2020 di circa 300 miliardi di dollari; complessivamente si tratta del 17% delle attività totali di bilancio, con punte del 25 per cento. Ci sono quindi tutte le condizioni perché si inneschi il circolo vizioso fra debito sovrano e debito bancario che l’Europa ha sperimentato e che ha frenato in tempo grazie alla coraggiosa decisione della Bce guidata da Mario Draghi. Ma i Paesi emergenti non possono contare su un demiurgo analogo e dunque si prospetta il rischio di una reazione a catena fra debito esterno e debito interno che è stata alla base di gravi crisi internazionali come quella che ha colpito l’Argentina all’inizio del nuovo millennio e prima ancora la Russia. Il momento della verità è arrivato con la svolta della politica monetaria americana; non a caso, quando nel 2013 si temette un aumento dei tassi, i mercati reagirono istericamente (il famoso taper tantrum, cioè un capriccio da bambini per un probabile graduale ritorno a tassi normali) e il debito dei Paesi emergenti fu tra i primi a essere colpito. La recente decisione della Fed naturalmente ripropone un problema che non potrà che aggravarsi in futuro. L’effetto immediato è che i mercati si aspettano segni di rigore fiscale da parte dei Paesi più indebitati, anche se questo  significherà una frenata deflazionistica e un aumento della povertà, che in molti casi è già inaccettabile. Si attendono anche misure volte a contenere il nesso fra debito pubblico e sistema bancario interno e in questa prospettiva, il Fondo monetario prospetta la possibilità di imporre alle banche ulteriori requisiti di capitale in proporzione del debito pubblico detenuto. Una misura che fa fischiare le orecchie agli europei; finora proposte in questo senso formulate soprattutto dai Paesi più virtuosi come la Germania, sono state rintuzzate, ma covano sempre sotto la cenere e potrebbero tornare di attualità anche in Europa, ora che il sostegno della Bce viene gradualmente a mancare. Nel medio periodo, le richieste di ristrutturazione del debito dei Paesi emergenti sono destinate ad aumentare: lo Sri Lanka non sarà un caso isolato. Attualmente, l’organismo che sovraintende a queste operazioni è il club di Parigi (e di Londra) nato proprio dopo la crisi dei primi anni Ottanta, il tutto sotto l’ombrello del Fondo monetario. Quest’ultimo ha cambiato atteggiamento: agli inizi sosteneva soprattutto le ragioni dei creditori e imponeva politiche severe atte a massimizzare i pagamenti del debito pregresso. Oggi ha un atteggiamento più vicino ai debitori, anche perché non dimentica che per ogni prestito richiesto oltre i limiti della ragionevolezza c’è sempre un creditore che non ha valutato adeguatamente i rischi. Qui però si apre un problema istituzionale, perché il Club sorto negli anni Ottanta era pensato per un mercato dominato dai prestiti delle grandi banche dei Paesi avanzati che ancora nel 2006 detenevano l’86% del debito, ma oggi questa quota è scesa al 58% perché è aumentato il peso degli investitori privati (principalmente attraverso investitori istituzionali) e soprattutto della Cina, che oggi detiene il 29% del debito dei Paesi più poveri, incluso proprio lo Sri Lanka. Questo significa che il club di Parigi non è più rappresentativo dei creditori di oggi e dunque nuove strutture e nuovi accordi devono essere assicurati per favorire operazioni di ristrutturazione del debito, che non possono non coinvolgere Pechino. Anche perché, tanto per essere fedele alle sue tradizioni, la Cina finora conduce le sue operazioni sul tema con estrema riservatezza, che contrasta con la necessità di trasparenza che il mercato richiede in questi casi. Per questo il default dello Sri Lanka sarà un primo test della capacità internazionale di reagire in modo da contemperare le esigenze dei debitori e quelle dei creditori. L’unico modo alla fine per evitare una nuova crisi finanziaria internazionale.

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