STUPIDA RAZZA

giovedì 18 agosto 2022

La Cina vende Treasury Usa: 113 miliardi $ in sette mesi

 

Pechino, dopo che in maggio aveva rotto all’ingiù la soglia psicologica dei 1.000 miliardi di dollari, continua nella dismissione dei titoli di Stato americani. Secondo l’ultimo dato del Dipartimento del Tesoro Usa, riferito al mese di giugno, la somma di Treasury detenuta dalla Cina si è assestata a 967,8 miliardi di dollari. Si tratta di una diminuzione dell’esposizione non da poco. Esattamente un anno prima, il 30 giugno 2021, i governativi statunitensi nelle mani dell’ex Regno di Mezzo valevano 1.061,8 miliardi. Successivamente, nel novembre scorso, sono arrivati a quota 1.080,8 miliardi. Di lì in poi, mese dopo mese, la Cina ha venduto. La strategia, tra il 30/9/2021 e metà 2022, ha portato alla cessione di 113 miliardi in titoli (oltre il 10% del portafoglio ai valori di novembre). La prima accelerazione, a ben vedere, si è avuta in febbraio. In quel momento Pechino possedeva 1.054,8 miliardi di dollari in Treasury. Il mese successivo, mentre l’invasione russa dell’Ucraina infuriava sempre di più, il controvalore è calato a 1.039,6 miliardi. Gli ulteriori colpi, poi, ci sono stati in aprile e maggio quando le dismissioni hanno raggiunto il valore rispettivamente di 36,2 e 22,6 miliardi di dollari. Insomma: al gigante asiatico il debito pubblico a stelle e strisce piace sempre meno. La geopolitica Quali, allora, le cause di una simile situazione? La risposta più gettonata tra gli esperti è in chiave geopolitica. In particolare: a fronte della stessa guerra in Ucraina e del rischio di un conflitto per Taiwan, la Cina pare allontanarsi dall’America. «La crescente tensione tra Washington e Pechino, in particolare rispetto all’isola di Formosa – spiega Antonio Cesarano, Chief global strategist di Intermonte -, ha aumentato le distanze tra i due Paesi». Proprio in questi giorni si susseguono le notizie dell’incremento del numero di aziende cinesi, le cui azioni sono scambiate a Wall Street, che intendono abbandonare la quotazione in America. «La diminuzione dei Treasury in mano all’ex Regno di Mezzo, insomma, può rappresentare il segnale della volontà di Pechino di ridurre ulteriormente i legami con gli Usa. Anche perché, nell’ipotesi non auspicabile che la situazione degeneri, i governativi statunitensi, in mano alla Cina, potrebbero», analogamente a quanto accaduto alla Russia, «fin’anche essere congelati». Vero! I dati più recenti sui possessori dei titoli di Stato risalgono a giugno quando l’andamento dell’inflazione statunitense, e quindi le previsioni sulla velocità della stretta monetaria da parte della Fed, erano ancora molto aggressive. Quindi, bisognerà aspettare il report riferito a luglio per capire la reale evoluzione della situazione. Ciò detto, però, la validità di fondo della valutazione rimane. Nonostante le diplomazie siano al lavoro, i contrasti tra America e Cina si leggono anche attraverso la gestione del portafoglio in titoli di Stato Usa da parte di Pechino. La finanza Al di là di ciò, non va dimenticato che possono sussistere motivazioni più strettamente finanziarie. Cause, soprattutto legate alla dinamica dei tassi e dei cambi valutari, che sono avallate in particolare dagli esperti cinesi. In tal senso, da inizio anno, il Treasury a 10 anni si è deprezzato. In febbraio il rendimento viaggiava intorno al 2% (a marzo è scivolato fino all’ 1,7%) mentre in giugno lo yield è arrivato a toccare quota 3,48%. Chiaro che, in un simile contesto, il detentore del governativo, al fine di limitare l’impatto della svalutazione degli asset, può essere stato indotto a vendere. Non solo. Nel medesimo periodo il cambio tra dollaro e renminbi ha invertito la rotta. Il biglietto verde, da tempo, era all’interno di una dinamica discendente rispetto alla valuta di Pechino. Il rapporto valutario è passato da circa 7,145 del 18 maggio 2020 al livello di 6,308 degli ultimi giorni di febbraio scorso. Sennonché, a partire da quel momento, il renminbi si è deprezzato verso il dollaro. La moneta statunitense ha ripreso vigore per arrivare alla quota attuale intorno a 6,80. «A fronte di un simile scenario - spiega Tullio Grilli, capo brokerage elettronico di Banca Akros – Pechino, da una parte, può avere avuto minore voglia di acquistare i titoli di Stato (che sono diventati per lei più cari, ndr)»; e, dall’altra, «potrebbe essere stata ancor più invogliata a vendere per approfittare del vantaggio (nominale, ndr) nella ridenominazione in renminbi delle somme incassate in dollari». Certo: si tratta di ipotesi. Bisognerebbe conoscere la composizione, ad esempio rispetto alle scadenze, del portafoglio di Treasury di Pechino per comprendere quale sia la vera strategia. E, però, è indubbio che la Cina da sette mesi va riducendo i titoli di Stato statunitensi in suo possesso. Un segnale che non può essere sottovalutato.

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