STUPIDA RAZZA

martedì 30 agosto 2022

«Chi fa le verifiche non ha metodo e spesso è di parte»

 

«Chi svolge attività di fact checking ha una responsabilità sempre più grande, anche rispetto a chi divulga fake news, sia in termini di etica professionale verso la notizia, sia in termini di capacità professionali». Michele Zizza, docente di culture digitali all’universi - tà degli studi della Tuscia, non ci gira troppo intorno. E alla Verità spiega perché sul debunking, l’attività che cerca di smascherare le bufale, l’Italia è ancora molto indietro: «Non esiste un metodo scientifico», afferma Zizza. E ognuno si arrangia come può. Spesso, però, per via di verifiche superficiali o addirittura orientate ideologicamente o da interessi, queste strutture che si ergono a paladine dell’informazione forniscono un pessimo servizio, censurando notizie che non hanno nulla a che vedere con le fake news. In tempi non sospetti, ovvero prima della pandemia e del conflitto in Ucraina, Luca Ricolfi in una sua analisi sul sito della Fondazione Hume, aveva già descritto come dei «dilettanti» gli sbufalatori: «La prima cosa che colpisce», valutava Ricolfi, «è la mancanza di competenze specifiche, pertinenti e soprattutto riconosciute, di molti autori di spietate “ve r i f ic h e”delle affermazioni altrui. Ma l’a s p etto più interessante è che non di rado gli esperti, ovvero coloro che hanno una riconosciuta competenza o esperienza riguardo all’argomento di cui si parla, risultano ancora meno affidabili dei d i l etta nt i » . Nonostante ciò l’atti - vità dei fact checker è diventata di moda. Spuntano siti come funghi. «In Italia ci sono dei siti specializzati che si occupano di debunking ma dal mondo del giornalismo arriva ancora molto poco e, seppur se ne parli, non si vogliono realmente adottare strumenti per contrastare le bufale e rafforzare la cultura che vuole intervenire sul fenomeno». C’è chi si è dato delle regole e chi si è affidato a protocolli. «Il lavoro è meticoloso e richiede tempo e per questo non bisogna mai cadere nella trappola della celerità per far chiarezza su una notizia. Basta guardare agli due ultimi eventi, di portata mondiale, che stiamo vivendo: la pandemia da Covid e il conflitto in Ucraina. Entrambi sono caratterizzati da un aspetto che ha inciso su ll ’evoluzione dei processi della comunicazione». Ma c’è qualche metodo che possiamo definire scientifico nel settore del fact checking? «Guardando ad esempio al Covid ci rendiamo conto che la straordinarietà del fenomeno pandemico ha colto impreparate le istituzioni e il mondo de ll’informazione e della comunicazione. La disponibilità di nuovi mezzi di informazione, tecnologie e paradigmi, ha permesso di generare un flusso di notizie e dati senza precedenti. Ci sono ricerche scientifiche e molte di queste sono infatti partite dalla raccolta e classificazione di notizie sul Covid-19 generate da istituzioni e organi di informazione su determinate piattaforme social e sul Web. Il fine è stato anche quello di evidenziare, da questa mole di notizie, quelle false e studiarne il percorso». Quindi è ancora tutto in divenire? Non si può prendere per oro colato l’attività di debu n k i n g? «Come dicevo, oggi più di ieri vi è una sovrabbondanza di fake news perché vi sono più media e digital media e i cittadini, attraverso i device, non sono solo fruitori delle informazioni ma hanno anche la capacità di modificare e condividere un contenuto-notizia. Difatti il giornalismo, fatto di codici e vincoli, è chiamato a un nuovo ruolo nella società iperconnessa e per questo ha il dovere di garantire ai lettori un servizio attendibile e pronto a far luce sulle fake. Ci sarebbe tanto da scrivere e discutere sulle strade percorribili per far fronte al fenomeno; un fenomeno che si può contrastare per abbassare l’i nc id en za ma non si può certo sconfiggere » . Anche all’estero si trovano nella stessa situazione? O hanno fatto dei passi avanti rispetto al panorama italiano? «Il grande insegnamento, nel mondo della stampa, ci arriva dalla scuola americana che ci permette di osservare una nuova logica all’i nte r n o delle redazioni. Ogni struttura ha uffici dedicati alle attività di fact checking e questo garantisce un servizio di maggiore qualità. Addirittura gli utenti possono segnalare direttamente la notizia falsa e questa, dopo la valutazione, viene resa pubb l ic a » . In Italia c’è Open, di Enrico Mentana. Il mondo accademico che si occupa di comunicazione e di informazione come valuta l’operato sul fact check i n g? «In Italia bisogna riconoscere un certo impegno affrontato dalla testata Open online e, nello specifico, dal giornalista David Puente. Ovviamente anche questa testata è scivolata qualche volta. Ma è davvero difficile, stando anche sul campo, prendiamo per esempio il conflitto in Ucraina e la mole di informazioni che ha prodotto, capire quale sia la notizia vera e quella falsa. Mi viene in mente il detto “solo chi non fa non sba g l i a”». C’è ancora molto da fare insomma. «Ritengo che anche le altre testate debbano integrare un servizio di debunking all’interno dei propri uffici e seguire il modello statunitense». Un modello che ancora non è stato applicato in Ita l i a? «Attualmente non esiste una metodologia scientifica e ognuno si organizza come crede per risalire alla verità della notizia. Sicuramente è importante rafforzare l’esercito di coloro che operano contro le bufale e quindi anche nel giornalismo, attraverso le organizzazioni di categoria, devono aumentare le ore di formazione e devono essere forniti strumenti per certificare la fonte e la notizia. Penso a badge, Qr code, firma digitale». Non c’è un modo per educare lettori, telespettatori e fruitori di social a districarsi senza aspettare che il fact checker di turno, che come abbiamo visto non applica un metodo scientifico, dia una patente molto approssimata a una notizia? «Altro passo fondamentale è divulgare, in tutte le scuole di ogni ordine e grado, la cultura d el l’informazione. Tutto ciò non garantisce il superamento del fenomeno ma, sicuramente, aiuta ad abbassare l’in cidenza del problema».

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