STUPIDA RAZZA

martedì 23 agosto 2022

Il pensiero anti globalista del filosofo

 

Nel lontano, ma non poi così lontano, 1918, Thomas Mann dava alle stampe quel libro straordinario che sono le C o n sid e ra - zioni di un impolitico. Libro datato, eppure attualissimo nella lucida impostazione del tema di fondo: la Grande Guerra vista dalla Germania conservatrice come scontro di civiltà, e più esattamente come scontro frontale tra la Kultur (tradizionale, gerarchica, legata ai valori nazionali) e una Zivilisation incarnata in primo luogo dalla Francia illuminista, ma anche dall’Italia massonico-risorgimentale, dal Regno Unito e, sullo sfondo, dall’America emergente. Il Zivilisationsliterat, figura-simbolo, per M ann , del fronte occidentalista o atlantista, è quello che oggi chiameremmo l’«intellettuale liberal», pronto a sposare gli ideali progressisti di un Occidente atlantico avviato già allora alla conquista del mondo. A distanza di un secolo, Ale - ksandr Dug i n riprende e radicalizza la prospettiva manniana dello scontro di civiltà, dove il fronte della Kultur, il fronte anti-liberale, non è la Germania guglielmina ma una vasta, alla fine planetaria, coalizione di «civiltà» refrattarie all’egemonia occidentale: una coalizione virtuale e di cui Du - gi n, filosofo russo e apertamente slavofilo, vede nella Russia odierna il baluardo. Tentare una valutazione del pensiero di Dug i n dal recentissimo manifesto C o n t ro il Grande Reset. Manifesto del Grande Risveglio (Aga Edizioni 2022) sarebbe riduttivo: Du - gin ha scritto molto, e in termini molto più «filosofici», più tecnici, di quanto non appaia in queste pagine. La presa di coscienza collettiva del fatto che l’alta finanza e l’alta tecnologia (Big Finance e Big Tech) a guida essenzialmente americana mirano - ecco il Grande Reset - a rilanciare a marce forzate il progetto-globalizzazione: volto a esportare ovunque il modello e i «valori» occidentali, sopprimendo le identità locali - tradizioni, culture - nello spazio uniforme di un pianeta colonizzato dalle nuove tecnologie. E non solo le identità locali, perché la fase ultima, accelerata, del processo di globalizzazione mira al superamento della stessa identità umana intesa come natura umana, a favore di una post-umanità artificial e. Ne ll ’individuare il bersaglio, il nemico geopolitico, Du - gin non ha rivali: la pars de - st rue n s del suo discorso è implacabile e coerente. Una cultura moderna orientata a isolare l’individuo dai suoi legami collettivi, anzi alla distruzione delle identità collettive (le appartenenze religiose e nazionali, le tradizioni comunitarie in senso lato). La libertà esaltata dal liberalismo è la libertà dell’indivi - duo isolato, atomizzato e perciò strappato da quei contesti di senso che fondano le civiltà tradizionali. È su questo terreno dell’individuo atomizzato che matura il moderno capitalismo, affiancato da una tecnologia che, secondo l’intui - zione heideggeriana, cresce inarrestabile come volontà di potenza (sempre più potente) dell’individuo sull’ente, sulla natura ridotta a puro ente. Il delinearsi di una opposizione interna alla marcia del capitalismo globalista segnala tuttavia un potenziale di resistenza che il manifesto duginiano chiama all’appello, con la formula un po’ enfatica del Grande Risveglio. All’interna - zionale delle élite globaliste si contrappone l’i nte r n a z io n a l e dei popoli e delle tradizioni. C’è infatti, in Dug i n , un encomiabile primato della geografia. La ripartizione del pianeta in aree geografiche e geopolitiche, aree di civiltà e zone di influenza, è lo «zoccolo duro» che si oppone alla «pialla» della globalizzazione occidental e. Primato encomiabile, che fornisce un solido fondamento teorico alla rivolta delle masse minacciate dal diluvio global. Quale peso assegnare alle diverse componenti delle civiltà «in rivolta»? A quella religiosa, a quella politica? Il manifesto oscilla tra il primato delle culture politiche (al plurale) e il primato delle tradizioni spirituali e religiose. Il programma, qui solo enunciato, è quello di un «patto» tra le grandi tradizioni, contrapposte al delirio unipolare globalista. Non c’è, in Du - gin, il rischio di un «esperantismo» multireligioso, che si muoverebbe - come l’infelice e grottesco esperanto - proprio sulla scia dell’un ive rsa lis mo massonico anglosassone. Non si può negare tuttavia che sia proprio il ruolo delle «tradizioni» chiamate all’ap - pello a suscitare qualche perplessità. Sono quei passi del «manifesto» (e delle Appendici che lo corredano) in cui il filosofo russo definisce il «grande risveglio» come un «processo di formazione, creazione e manifestazione» di una «nuova concezione spirituale della storia». Una concezione, beninteso, fondata su una critica radicale della modernità occidentale: ma in che senso - ci si domanda - sarebbe una «nuova con - cezione della storia»? E così, quando evoca l’av - vento di «u n’altra trad i z io n e » , non si affaccia qui l’utopia di una tradizione finale, vista come compendio delle tradizioni esistenti, e di cui la Q ua rta Teoria Politica (a cui Dug i n ha dedicato un saggio importante nel 2009) tenta di fornire le coordinate generali? Il timbro profetico di queste pagine, e l’assenza di riferimenti concreti al simbolismo metafisico delle varie «vie» (cristianesimo e islam, buddismo e confucianesimo, induismo e culti sciamanici), può autorizzare il sospetto che le diverse tradizioni fungano qui più che altro da piattaforma-base, da riserva strategica in vista di una «neo-tradizione» di cui la Russia multietnica e multireligiosa potrebbe essere, non a caso, la matrice non solo «katechontica» ma anche appunto «profetica». L’immensa varietà delle forme politiche, culturali, giuridiche e religiose offerta dalle culture non occidentali e non moderne va assunta - scrive Dug i n - come fonte ispiratrice al fine di c r e a r e q u a l c o s a d i n u o v o, «come stella polare per la creazione della Quarta teoria politica». Che le tradizioni (al plurale) «funzionino» così, come sorgente ispiratrice, risulta chiaro dalla disinvoltura con cui Dug i n attinge, per esempio, e in altri scritti, al mondo classico e poi cristiano medievale, ma anche a un certo esoterismo cristiano-germanico. È questa ansia di novità (e di superamento) rispetto alle grandi tradizioni esistenti, a lasciare perplessi. Come se maturasse in Dug i n l’idea post-gioachimita di una «quarta aetas» (la Quarta Teoria Politica, appunto), di un nuovo e definitivo «sigillo» delle profez ie. E si affaccia, a questo punto, una suggestione che richiederà verifiche più attente: che la reazione anti-occidentale e anti-moderna di Dug i n ricor - di non poco la reazione antiilluministica e anti-moderna dei primi Romantici tedeschi, e quella utopia filosofico-letteraria che un celebre manifesto di quegli anni annunciava come una «nuova mitologia», nata a partire dal vasto repertorio delle mitologie e delle religioni esistenti. Non sarà che l’idea duginiana di un’« a l tra tradizione» filosofico-religiosa rilancia inconsapevolmente l’utopia neo-mitologica di Friedrich Schlegel, del giovane Schelling ? Ma l’idea di una mitologia «costruita», sia pure in aperto contrasto con l’ideologia dei Lumi, è pur sempre una proiezione verso un futuro, che diventa nei Romantici l’attesa di un «dio a ve n i re » . Se Ado rno e Ho rkh eim er parlavano di una «dialettica dell’Illuminismo» (ossia l’Illu - minismo che genera il suo contrario), avremmo qui una dialettica del romanticismo, e nel caso di Dug i n una dialettica dell’antiglobalismo: che rischia di generare, malgrado tutto, il suo contrario, nella forma di una «globalizzazione tradizionale» dal dubbio significato tradizionale.

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