STUPIDA RAZZA

giovedì 18 agosto 2022

Ricercatori «sorpresi»: i vaccinati si reinfettano con maggiore facilità

 

Uno studio islandese sorprende persino i suoi autori: ci sono più reinfezioni tra i vaccinati con due o più dosi, che tra le persone che hanno ricevuto una sola puntura o nessuna. E in Italia? Non si sa: l’Iss segnala che i casi di guariti che si contagiano di nuovo si sono stabilizzati. Ma il loro status vaccinale resta ignoto. «S or pren de ntem ente ». Scrivono proprio così, gli autori della rese a rc h lette r, pubblicata giorni fa dal Journal of the american m e d ic al associa - tio n , nella quale si certifica che i vaccinati con due o più dosi si reinfettano più dei non vaccinati, o dei vaccinati con un solo sh o t . L’indagine che l’ha svelato è stata condotta in Islanda, su una coorte di 11.536 individui con test positivo durante la prima ondata di Omicron (dicembre 2021-febbraio 2022). La probabilità di finire nuovamente colpiti dal Covid - tanto a 30 quanto a 90 giorni dal precedente contagio - è risultata «più elevata tra persone che avevano ricevuto due o più dosi, rispetto a una dose o meno di vaccino», di circa una volta e m ez za . Certo, gli stessi scienziati che hanno vergato l’artic olo sottolineano che non bisogna trarre conclusioni affrettate, vista la difficoltà di introdurre elementi correttivi che tengano conto della «complessa relazione tra precedente infezione, idoneità al vaccino e patologie preesistenti». Insomma, la scoperta, un po’ imba - razzante per i talebani delle iniezioni, non va interpretata come la prova maestra contro i preparati a mRna. Di sicuro, però, è uno stimolo per approfondimenti. Quelli che, da noi, l’Istituto superiore di sanità non si cura di realizzare. Ne l l ’ultimo report si parla solo di una stabilizzazione, intorno al 13,3% sul totale dei tamponi positivi, dei casi di nuovi contagi in soggetti già guariti. C’è solo una lievissima crescita rispetto al monitoraggio della settimana precedente. Da gennaio a oggi - nel pieno della diffusione del ceppo sudafricano - il tasso di reinfezione è però aumentato costantemente e sensibilmente, con un incremento ancora più consistente nei mesi estivi, quelli in cui ha dilagato l’onda - ta di Omicron 5. Era prevedibile, vista la maggiore capacità della variante di eludere non solo le difese sviluppate dall’organismo in seguito alla vaccinazione, ma anche l’im - munità naturale, quella prodotta dal contatto con una precedente variante del Sars-Cov2. Dopodiché, se la medicina non è un’opinione, aver superato la primissima versione di Omicron dovrebbe offrire uno schermo duraturo anche contro le sue sottovarianti. Tuttavia, nei bollettini di Epicentro, a parte un grafico sulla quota di reinfezioni e un paragrafetto con l’a gg io rn amento del totale dei casi, al tema non è dedicata alcuna sezione specifica. In parole povere, a differenza di quello che è possibile osservare nello studio islandese, in Italia non viene comunicato l’identikit degli sfortunati che si beccano il Covid per la seconda volta. O magari la terza, o addirittura la quarta, com’è successo al povero Guido Crosetto. Chi sono costoro? Da quanto tempo erano guariti? Si sono riammalati sempre in forma paucisintomatica? E quante dosi di vaccino avevano ricevuto? Mistero. Alla faccia della scienza, che abbonda sulla bocca dei cosiddetti «competenti» e che, invero, richiederebbe la piena pubblicità dei d at i . Conoscere certi dettagli, infatti, non è pedanteria. Se, ogni 100 positivi, 13 avevano già avuto a che fare con il coronavirus, è lecito domandarsi se ci siano caratteristiche che predispongono alla reinfezione. Gioca un ruolo la genetica? E se si accertasse che i plurivaccinati sono sistematicamente più suscettibili alle ricadute? Non dovremmo andare alla ricerca di una spiegazione plausibile? Può darsi che l’esempio dell’Islanda mostri una correlazione spuria. E allora, come mai Tracy Hoeg, una ricercatrice che collabora con il dipartimento della Salute della Florida, su Twitter ha anticipato che, da un vasto dataset californiano, sta venendo fuori «qualcosa di simile» a quello che è stato osservato nella terra dei ghiacci? Un’ipotesi non peregrina è che stimolare troppo, e a intervalli troppo ravvicinati, il sistema immunitario, ne diminuisca la capacità di neutralizzare un agente patogeno. Basti pensare che una ricerca, uscita sul New En gl a n d jour - nal of medicine a luglio, ha comprovato che la conversione di coltura virale richiedeva cinque giorni in più nei tridosati rispetto ai non vaccinati. Detto fuori dal gergo medico: ci voleva più tempo affinché una colonia di materiale infetto, proveniente da persone che avevano ricevuto il booster, non fosse più in grado di riprodurre colture cellulari con presenza di virus. Dovrebbero essere stimolanti questioni scientifiche. Eppure, esse paiono non interessare alle nostre istituzioni sanitarie. L’Iss è ancora alle prese con i «limiti intrinseci» dei suoi report, da cui ormai traspaiono i flop dei vaccini. E il solleone non aiuta.

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