STUPIDA RAZZA

lunedì 12 settembre 2022

Tassi in rialzo, prezzi, energia: il super dollaro minaccia l’economia

 

L’apprezzamento della moneta verde, in crescita da 20 anni, sulle altre valute mondiali spinge ad accumulare dollari come rifugio dall’instabilità attuale. Ma gli aumenti di materie che un dollaro forte innesca, l’inflazione, guerra e Covid che aleggiano ancora sulle nostre teste, preparano per l’autunno uno scenario di crisi economica globale. E la preoccupazione sale tra investitori e operatori. R e dollaro. Il biglietto verde si sta rivelando la valuta più forte del pianeta, la riserva di ultima istanza. Si sta apprezzando tanto sulle divise dei Paesi più forti quanto su quelle, da sempre più ballerine, dei Paesi emergenti. Sotto i colpi dei rialzi dei tassi della Federal Reserve, orchestrati per sconfiggere l’inflazione, il dollaro viene acquistato senza pause dagli investitori globali ormai da un anno per proteggersi da uno scenario economico sempre più incerto. Il paradosso è però che più sale il dollaro più si creano i presupposti per una futura, e più ampia, crisi finanziaria globale. L’attuale ciclo rialzista è iniziato a giugno del 2021. Da allora il dollar index - un paniere che calcola l’andamento del dollaro nei confronti di un basket di valute internazionali fra cui euro, yen, franco svizzero e sterlina - è cresciuto del 23% passando da 89 a 110 punti, il livello più elevato da 20 anni. Nel frattempo l’euro è passato da 1,22 a 0,99, perdendo più del 20% e la parità come non accadeva dal 2002. Ancora più evidente il calo dello yen, scivolato del 30%. A questo giro della storia la divisa nipponica ha perso lo standing di bene rifugio, qualità che ormai è riconosciuta solo e proprio al dollaro. Perfino l’oro deve arrendersi allo strapotere della divisa statunitense dato che da inizio anno sta perdendo l’8% e il 18% dai massimi del 7 marzo scorso a 2.070 dollari l’oncia. Il rischio Paesi emergenti Come detto, la cavalcata del dollaro non sta facendo eccezioni e sta colpendo anche le divise dei Paesi emergenti che subiscono un triplo effetto collaterale dal suo apprezzamento. Il primo riguarda la forte svalutazione delle proprie divise. Per fare qualche esempio, nei giorni scorsi il peso delle Filippine è sceso sotto 57 contro il dollaro per la prima volta nella storia. Il korean won tratta ai minimi da 13 anni. A livello globale 36 valute hanno perso da gennaio oltre il 10% sul dollaro, una decina (tra cui la rupia dello Sri Lanka e il peso argentino) oltre il 20%. La lira turca oggi vale il 26% in meno rispetto a gennaio e sta segnando il decimo anno di fila in calo. Per limitare i danni i Paesi emergenti stanno vendendo i dollari che hanno nelle proprie riserve al ritmo di due miliardi al giorno. Da inizio anno il totale di riserve evaporato ammonta a 379 miliardi (secondo gli ultimi calcoli di Bloomberg aggiornati al 18 agosto). Il Ghana ha venduto il 26% delle proprie riserve e, nonostante questo, il cedi ha perso un terzo del valore contro il biglietto verde. Anche Mongolia, Pakistan e Ucraina stanno “prelevando” al massimo dalle riserve in valuta forte pur di difendere il cambio. Da inizio anno hanno ridotto le proprie cassaforti in dollari del 30%. Nonostante queste mosse il dollaro non si ferma, alimentato al rialzo dalla politica aggressiva della Federal Reserve (che da marzo a luglio ha alzato i tassi di 250 punti base e che il 21 settembre dovrebbe mettere a segno un’altra stretta da 75) per contrastare l’inflazione (che negli Usa viaggia all’8,5%).C’è chi paragona quello che sta accadendo ai Paesi emergenti alla crisi asiatica nel 1998, causata proprio dalla debolezza delle valute in concomitanza di una Fed più aggressiva. Il secondo grande effetto collaterale del super dollaro nei confronti dei Paesi emergenti è l’aumento effettivo del già corposo debito che questi Paesi hanno contratto in dollari. Per questi Paesi ripagare gli interessi sul debito sta diventando molto più oneroso. Si veda il caso Sri Lanka che ad aprile ha annunciato default su un debito estero di oltre 50 miliardi di dollari. Entro fine anno i Paesi emergenti dovranno rimborsare debiti in scadenza per 5.500 miliardi di dollari, di cui quasi mille in valuta straniera, stando ai calcoli dell’Iif, Institute of international finance. Non finisce qui: c’è un terzo effetto e riguarda i deflussi di capitale da queste aree. Man mano che il dollaro si rafforza, i modelli macro spingono gli asset manager ad uscire dai Paesi emergenti, soprattutto quelli le cui currencies mostrano la maggiore debolezza contro dollaro. La scorsa settimana i fondi globali hanno venduto 436 milioni di dollari di esposizione sul comparto che si aggiungono ai deflussi per 2,4 miliardi della settimana precedente, rilevano gli esperti di Zeygos. Il mercato di Taiwan è quello che ha subito la maggiore pressione in vendita. Si pensi che da inizio anno sono stati venduti asset per 41 miliardi di dollari. Inflazione fuori controllo Tutti vogliono dollari da un po’ di tempo a questa parte perché il contesto macroeconomico globale presenta rischi crescenti a fronte del cocktail micidiale che vede molte aree dover fronteggiare contemporaneamente gli effetti di un’inflazione fuori controllo e quelli di un forte rallentamento economico con molti Paesi prossimi alla recessione. Nel pieno dell’incertezza molti investitori internazionali stanno comprando dollari perché è considerato il porto sicuro della finanza e perché - nel momento in cui si comprano biglietti verdi passando per i titoli di Stato statunintensi - si ricevono tassi di interessi attraenti (come il 3,5% offerto dalla scadenza a due anni). Il rischio è però che l’istinto di rifugiarsi nella divisa più forte diventi esso stesso la miccia per una più profonda crisi globale. A rischio non è solo la tenuta dei Paesi emergenti ma anche delle economie più avanzate. Nel momento in cui il dollaro si rafforza per tutti gli altri Stati importare le materie prime costa di più (perché sono quotate e prezzate in dollari). Di conseguenza ogni qual volta la Fed alza i tassi e spinge gli investitori a comprare altri dollari le altre aree economiche importano inflazione, dovendo pagare di più per accaparrarsi le commodities. Un circolo vizioso che sta costringendo anche molte altre banche centrali a rialzare i tassi, in contrasto con l’evidente rallentamento dell’economia. In questa scia anche la Bce che giovedì scorso ha annunciato un rialzo dei tassi di 75 punti base (il più alto da quando l’euro è a corso legale) pur ammettendo che nel 2023 si attende un calo della crescita dal 2,1% precedente stimato allo 0,9%. Ne consegue che la battaglia all’inflazione per i Paesi che non utilizzano dollari è più complessa, dato che essa è alimentata oltre che dagli ormai noti problemi legati all’offerta (colli di bottiglia nella produzione post-Covid) anche dal circolo vizioso innescato dal Re dollaro. Se la Bce non avesse alzato i tassi di 75 punti base la scorsa settimana di quanto si sarebbe ulteriormente deprezzato l’euro e di quanto sarebbe aumentato il costo delle materie prime? Questo è un punto chiave che fa capire che fino a quando gli Usa non potranno dire, per usare le parole del governatore Jerome Powell di «aver completato il lavoro» e di aver riportato l’inflazione nell’orbita del 2%, il Re dollaro continuerà a dominare la scena finanziaria e a trasformarsi da bene rifugio in potenziale causa di una più profonda crisi finanziaria mondiale. Guerra energetica L’Europa poi si trova a fronteggiare due guerre in contemporanea: la prima, di natura valutaria, che la costringe ad inseguire la Fed sui tassi per difendere l’euro. La seconda di natura energetica. Lo scontro Russia-Ucraina è diventato anche una scontro tra Putin e l’Europa, con continue sanzioni e contro-minacce che hanno portato il prezzo del gas e dell’energia alle stelle. È quest’altra guerra al momento la causa principale dell’inflazione quasi a doppia cifra che l’Europa sta fronteggiando. E che i cittadini hanno già iniziato a pagare in termini di bollette e mutui più salati.

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