STUPIDA RAZZA

giovedì 8 settembre 2022

Società a rischio crac, ma il governo vuol tassare gli extraprofitti al 50%

 



Nelle ore in cui a Via XX Settembre i tecnici del Mef stanno raschiando il fondo del barile alla ricerca anche dell’ultimo spicciolo per finanziare il nuovo decreto Aiuti, è ormai una certezza il flop del gettito del «contributo a titolo di prelievo solidaristico straordinario» sugli extraprofitti delle imprese del settore energetico. La possibilità di ravvedimento offerta entro il 31 agosto dovrebbe aver portato poco più di 500 milioni nelle casse statali, facendo salire l’incasso totale a circa 1,5 miliardi. Davvero poco rispetto ai 4,2 miliardi previsti per l’acconto del 40%. È subito partita la caccia all’evasore, in un clima che non è ancora quello dei processi farsa guidati dal feroce procuratore dell’epoca staliniana An - drei Vysinskij, ma che promette di peggiorare rapidamente. Ha cominciato il segretario di Sinistra italiana, Nico - la Fratoianni, evidentemente nostalgico degli espropri proletari degli anni Settanta, proponendo di «utilizzare quella grande massa di extraprofitti delle aziende energetiche, stimati in 40-50 miliardi, anziché fare nuovo debito con lo scostamento di bilancio». Ha incalzato ieri il segretario della U il Pierpaolo Bombardieri, secondo il quale «il Mef deve identificare chi non paga la tassa sugli extraprofitti. Molte aziende hanno impugnato quel provvedimento: rispetto ai 10 miliardi previsti è arrivato solo un miliardo e mezzo, qualcuno dice perché il decreto è stato scritto male». Un’idea simile era stata avanzata qualche giorno fa anche dal leader del M5s, Giuseppe Cont e. Da più parti, per compensare la perdita di gettito si è avanzata la proposta di aumentare l’aliquota dal 25% al 50%. Il segretario della Cgil, Mau riz io Landini, ha proposto anche il 100%. Ma uscendo dal clima da bar dello sport tipico della propaganda elettorale, che vede all’opera circa 60 milioni di novelli fiscalisti, e guardando la realtà, le cose stanno ben diversamente. Come ha spiegato al Sole 24 Ore Francesco Gattei , cfo dell’Eni, a proposito dell’aumento dei profitti del Cane a sei zampe, «gran parte di quel risultato Eni l’ha fatto vendendo all’estero petrolio e gas come produttore. Poi, certo, vendiamo gas anche in Italia e in Europa, ma la fetta maggiore di quel gas l’ac qu i s t i a m o a prezzi indicizzati in gran parte al Ttf. Non abbiamo contratti magici a prezzi fissi e bassi siglati anni fa». Più in generale, le fonti dei presunti extraprofitti sono molto eterogenee e vanno distinti in primo luogo i soggetti che producono da quelli che commercializzano (all’ingrosso o al dettaglio) petrolio, gas o energia elettrica. Soprattutto questi ultimi possono avere scelto diversi profili di rischio per le loro attività di trading, con un utilizzo più o meno spinto degli strumenti di copertura, differenziati tra breve e lungo termine, mercato spot o a termine. Ammesso e non concesso che esista, è oggettivamente un fenomeno difficile da catturare e la scelta di farlo grossolanamente ricorrendo alla differenza degli imponibili attivi e passivi Iva registrati in due periodi è stata decisiva nel determinarne l’esito fallimentare. In altre parole, se si sceglie di calcolare una cosa difficile utilizzando un metodo grezzo, il risultato si avvicina allo zero. E non ha nemmeno molto senso ipotizzare aumenti di aliquota, perché se la base imponibile tende a zero, non c’è bisogno di un Nobel in matematica per calcolare che l’impo - sta tenderà anch’essa a zero. Allora non si può fare nulla? Niente affatto. Gli addetti ai lavori ricorderanno che in questo Paese siamo riusciti a calcolare, con metodi abbastanza comuni nella prassi aziendalistica, i profitti derivanti dall’utilizzo di beni immateriali come marchi e brevetti. Parliamo del cosiddetto «patent box», varato a fine 2014, che esentava dalla tassazione solo quella quota di profitto, riuscendo a isolarla dalla redditività «normale». Ma ci vuole tempo - che è esattamente ciò che mancava ai tecnici delle Finanze per fare un buon lavoro - e rispetto delle garanzie previste dallo Stato di diritto. Il calcolo dell’esenzione da «patent box» passava attraverso un contraddittorio tra contribuenti e Agenzia delle entrate che, per i grandi contribuenti, ha richiesto diversi mesi di incontri tra le parti per verificare le specificità dell’impresa e condividere il metodo appropriato. Invece c’era troppa fretta di inserire quelle entrate a bilanc io. Inoltre, le correzioni in vista non affrontano un problema che costò la bocciatura della Robin tax da parte della Corte costituzionale nel 2015. Infatti questa imposta ha lo stesso difetto dell’addizionale Ires del 6,5%: non colpisce solo gli extraprofitti, ma l’intero reddito dell’impresa, peraltro calcolato male. Infine, tutta quest’ansia di fare gettito potrebbe presto fare i conti con le difficoltà finanziarie delle imprese del settore, perché prezzi così elevati richiedono ingenti investimenti finanziari per le coperture e per gli stoccaggi e le notizie di operatori a loro volta in difficoltà per i clienti insolventi sono ricorrenti. Insomma, lo Stato rischia di prelevare oggi, per restituire domani, in termini di minori imposte delle imprese ormai fallite o salvate con le garanzie pubb l ic h e. È doverosa una profonda riconsiderazione della vicenda perché, almeno fino a quando ci sarà una Costituzione in questo Paese, gli espropri non dovrebbero essere possibili.

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