Funzionerà la ricetta della Bce?
L’istituto di Francoforte - seguendo
la Fed - ha deciso di alzare rapidamente i tassi: 50 punti base a luglio,
75 a settembre, poi ancora per altri
tre o quattro meeting. Se dovesse
alzare i tassi di 50 punti a ottobre e
poi di 25 punti nei due consigli successivi - l’ipotesi meno aggressiva
- il tasso di riferimento passerà al
2,25% che, con aspettative di inflazione vicine al due%, è pari grosso
modo a un tasso reale dello 0,25%.
Non moltissimo, in realtà. La
curva dei rendimenti – il “pavimento” de i tassi di mercato – sta però
salendo rapidamente. È proprio
questo che la Bce vuole: un raffreddamento della domanda che riduca
le pressioni inflazionistiche legate
alla domanda. Le proiezioni di settembre indicano un'inflazione media annua in calo al 2,4% nel 2024,
dal 5,5% del 2023 e dall'8,1% di
quest'anno, con un pil che, tra due
anni riprenderà a crescere dopo un
forte rallentamento. Il “prezzo” da
pagare è un rialzo della disoccupazione, che dovrà passare dal 6,7% di
quest'anno al 6,9% del prossimo, al
7% del 2024. Il messaggio è chiaro:
l’inflazione scenderà, la disoccupazione salirà.
La politica monetaria, si dice,
funziona così. Come la Fed, la Bce
immagina di evitare la recessione e
di pagare un prezzo limitato; con
tempi lunghi. Qualcosa però accade
subito, e potrebbe contrastare i piani della banca centrale. Il rialzo dei
tassi aumenta il costo del debito.
Per le aziende – e questo aumento
dei costi sarebbe compatibile con
l’obiettivo del “raffreddamento”
dell'economia – ma anche per gli
Stati. Sui Governi ricade allora una
scelta importante: come finanziare
le maggiori spese? Indebitandosi
ancora di più, contando sul fatto
che con tassi più alti aumenta anche
la domanda degli investitori? Oppure diminuendo il deficit (o aumentando il surplus) primario?
È una scelta importante. Perché un maggior debito tenderà a
causare un aumento dell'inflazione, che nel secondo caso potrebbe
davvero scendere. Non a caso la
Bce, nelle sue proiezioni, immagina un peggioramento del saldo
primario di Eurolandia nel 2023 –
sarà ovunque inevitabile proteggere i più deboli dai rincari – ma
un pareggio per il 2024.
È un punto cruciale. Perché
l’aiuto della politica fiscale può far
sì che l’economia non debba passare per una recessione per raffreddare i prezzi. «Non vedo nessun
motivo razionale per creare una recessione per portare temporaneamente l’inflazione verso il basso»,
spiegava nel suo blog – e in una ricerca di fine 2021 _ David Andolfatto, della Fed di St. Louis, riferendosi
all’analoga situazione negli Usa.
Non è un’invocazione di austerità fiscale: l’obiettivo è evitare una
recessione. Si sottolinea piuttosto
un altro canale della politica monetaria. La formulazione di questa
idea risale al 1981, nel lavoro Some
unpleasant monetarist Arithmetic di
Neil Wallace e Thomas Sargent,
premio Nobel 2011. Ad agosto, la
stessa idea è stata riproposta da due
economisti italiani, Francesco
Bianchi e Leonardo Melosi, al simposio di Jackson Hole.
Quando Paul Volcker alzò i tassi
per contenere l'inflazione ebbe, del
resto, il sostegno dell’Amministrazione Reagan la quale nel 1981 tagliò le tasse, ma nel 1982 e nel 1983
le alzò di nuovo, e non di poco...
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