STUPIDA RAZZA

giovedì 8 settembre 2022

Monti: «A Pechino meglio che a Washington»

 



Mario Monti batte di slancio il record deten ut o… da Mario Monti. Se infatti una delle frasi meno felici degli ultimi anni era stata pronunciata proprio dal senatore a vita, a novembre 2021, in tv su La7 («Bisogna trovare delle modalità meno democratiche nella somministrazione dell’informazione»), è stato lo stesso ex premier, domenica sera, ad alzare ancora l’a s t ic e l l a . Il fattaccio è accaduto durante la puntata di Sp e c iale Tg1 trasmessa da Cernobbio, e andata in onda domenica scorsa su Rai 1 . Titolo pomposo: «Il mondo che sarà. Scenari economici e geopolitici». Ospiti Monica Maggioni (direttrice del Tg 1 ), M au r i - zio Molinari (direttore di La Re p ub b l ic a), Alec Ross ( p re - sentato come esperto di innovazione e tecnologia), e ovv i a m e nte Mario Monti(senatore a vita e presidente della Bocconi). Al di là dei prevedibili e reiterati pistolotti contro il populismo, i temi sul tavolo erano di notevole rilievo: la guerra in Ucraina e le nuove sfide a cui sono chiamate le nostre democrazie. A un certo punto, Alec Ross ha fatto notare che «i cinesi guardano al conflitto in Ucraina pensando a Taiwan». A ruota, la Maggioni ha r ic h i a m ato pure i media a non cadere vittime del «fascino dei regimi autocratici». Ha detto la direttrice del Tg 1 : «Anche la narrativa con cui decidiamo di raccontare il tempo che viviamo è importante. Se accettiamo di dire che chi guida un regime è “più leader” rispetto a chi guida le democrazie allora stiamo anche noi indebolendo le democraz ie…». È bastato attendere pochi istanti ed è stato proprio Mario Monti ad adottare questo schema di ragionamento. Prima un esordio ambiguo e divisivo («Io penso che le nostre democrazie siano molto forti: i loro nemici sono al loro interno, non sono i Paesi autocratici»). Poi una considerazione più banale e tautologica: «Le debolezze delle nostre democrazie le rendono poco funzionali nel servire i cittadini, e quindi i cittadini si lasciano magari affascinare dai regimi autocratici». Quindi l’indicazione di due «vizi» delle nostre democrazie. Il primo, secondo M o nti , è «l’orizzonte brevissimo: non vengono prese decisioni con un’analisi a lungo termine, e ciascuno vuole monetizzare in termini di consenso elettorale». Il secondo ha a invece a che fare con il «processo di selezione per le leadership politiche». Tenetevi forte, perché qui è arrivata la bomba. Secondo M o nti , «si può dire tutto il male possibile del regime autocratico cinese, ma io penso che, come capacità e volontà di guardare al lungo periodo e di programmarlo, siano di fatto superiori a noi, e credo che il processo - che sarà sicuramente spietato e nell’ombra per molti aspetti - di formazione della classe dirigente politica attraverso la scuola del Partito comunista cinese probabilmente sia un processo di selezione perfino superiore a quello delle primarie degli Stati Uniti». Avete letto bene: sarà pure spietato, ma - secondo M o nti - il meccanismo attraverso cui si formano le leadership e le classi dirigenti nel regime comunista di Pechino è «superiore a quello delle primarie degli Stati Uniti». Un’inquadratura forse sfuggita alla regia ha mostrato un Alec Ross attonito, e un M au r i z io M ol i n a r i al cui proverbiale autocontrollo è sfuggito un sopracciglio visibilmente i n a rc ato. Ciò che colpisce è la naturalezza con cui M o nti è sembrato mettere tra parentesi il fatto che il processo di selezione alla cinese non preveda né libertà, né democrazia, né stato di diritto, né libera circolazione delle élites, né tantomeno possibilità di dissenso e di libera espressione da parte dei cittadini, e sia invece basato sulla violenza di Stato e di partito, organizzata e scientificamente prat ic ata . Da questo punto di vista, il problema non si limita agli espliciti amici delle autocrazie, ma riguarda anche quei tecnocrati che, in nome di un malinteso realismo, sembrano misurare la p e r fo r m a n c e di un sistema indipendentemente dai metodi adottati (democratici o no, basati sulla libertà o no). Ma del resto, perché stupirsi? Nella retina della nostra memoria sono rimaste le immagini del 2019 di Xi J i n pi n g accolto al Quirinale come un imperatore (con tanto di scorta d’onore di corazzieri a cavallo), la sua presenza troneggiante sulla prima pagina del Corriere della S e ra , che già mesi prima, a fine 2018, attraverso il proprio supplemento economico, aveva insignito il tiranno cinese del titolo di personaggio dell’anno con questa motivazione celebrativa: «Non c’e nessuno al governo in Occidente che si sia battuto bene come lui per rafforzare il proprio Paese senza confondere l’interesse nazionale con il proprio di breve respiro e che abbia al tempo stesso cercato di presentare la propria nazione come portatrice di valori». Non occorrono molti commenti. O, retrocedendo ancora nel tempo e uscendo dai nostri confini, resta memorabile l’accoglienza trionfale riservata al dittatore di Pechino a Davos nel 2017, con l’estab lis hm ent progress is ta mondiale (e - inutile dirlo - quello italiano) in prima fila a spellarsi le mani, a farsi vedere, a farsi intervistare nei giorni successivi, per lasciare a verbale il proprio plauso a Xi come alternativa allo sgradito Donald Trump. La capitolazione ideale ed etica, non solo politica ed economica, viene da lontano.

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