STUPIDA RAZZA

giovedì 8 settembre 2022

Modernità in declino Il termometro? Una solitudine devastante

 

 La modernità sembra vivere un declino simile a quello che sancì la fine dell’età antica: viene meno la vocazione politica e sociale e l’individuo, ridotto a particella nel vuoto, deve imparare a conoscere e gestire la propria solitudine, pur ricca di connessioni. All’inizio del secondo libro della Repubblica platonica, il personaggio Socrate trova l’origine dello Stato nel bisogno che gli umani hanno gli uni degli altri: distribuendo fra loro vari compiti funzionali, possono contribuire nel modo più efficace alla propria sopravvivenza e al proprio benessere. È una prima formulazione del tema che sarà poi raccolto da Aris totele e lo porterà a caratterizzare l’es - sere umano come animale politico: un animale che, a somiglianza di elefanti e balene ma in contrasto con vipere e ragni, fiorisce al meglio in comunità, attraverso l’e ducazione e l’esempio offertigli dai suoi simili. Siamo nel quarto secolo avanti Cristo: nel tempo a venire, le legioni, le strade e gli acquedotti romani avrebbero conferito sostanza all’idea che una comune amministrazione della cosa pubblica provveda alla sicurezza e prosperità dei cittadini. «Cives romanus sum», dichiaravano con orgoglio galli e africani, ispanici e illiri; lo dichiarava anche Paolo di Tarso, iniziatore del movimento che tanto avrebbe fatto per ridurre l’im - pero in ginocchio. Quando la splendida avventura del mondo antico entra nella sua estenuante, tetra decadenza, l’atteggiamento filosofico cambia radicalmente. Non ingannino le differenze e contrapposizioni fra le scuole: che si tratti di epicurei, stoici o scettici, il messaggio che ne arriva è il medesimo. Realizza la maggiore indipendenza possibile da ogni fattore esterno; liberati da quei bisogni che ti rendono schiavo delle circostanze e dei voleri altrui; mira a raggiungere un indisturbato equilibrio; abituati a vivere solo, se non fisicamente almeno emotivamente, scacciando affetti e desideri - ti vincolerebbero al prossimo, benevolo o malevolo che sia, e la loro frustrazione ti provocherebbe dolore. In un delicato passo del suo En - c h i rid io n ( M a nu a l e ) , E pi tteto (schiavo greco liberato e divenuto insegnante di filosofia a Roma, poi esiliato in Epiro quando nell’89 l’im peratore Domiziano bandì i filosofi dall’Italia) scrive: «Come in un viaggio per mare, se la nave ha ormeggiato e sei sbarcato per attingere acqua, cammin facendo potrà anche capitarti di raccogliere una conchiglietta, una piccola radice, ma la tua attenzione dev’esser sempre fissa alla nave, devi voltarti continuamente indietro, caso mai il timoniere ti chiamasse, e se ti chiama devi lasciar perdere tutto, se non vuoi esser caricato a bordo legato come una pecora: allo stesso modo anche nella vita, se ti sono dati non una conchiglia o una radice, ma moglie e figlio, nulla ti vieterà di avere la tua famigliola: ma se il timoniere ti chiama, lascia perdere tutto e corri alla nave senza neanche voltarti. E se sei vecchio non ti allontanare mai troppo dalla nave, in modo da non mancare, quando sarai chiamato». Lontano mille miglia da Epit - teto ma in sorprendente accordo con lui, il Neil McCauley interpretato da Robert De Niro nel film He at (1995) di Mi - chael Mann ispira la sua esistenza al motto: «Non ammettere niente nella tua vita che tu non possa abbandonare in 30 secondi». Da qualche decennio, anche l’avventura della modernità (non so quanto splendida) ha iniziato il suo declino, e il processo ha acquisito velocità negli ultimi anni. In attesa di capire che cosa riservi il futuro (non necessariamente agli umani), osservo che la fisionomia culturale del fenomeno è la stessa del ciclo precedente. Ora come allora, viene meno la vocazione politica e sociale e l’individuo (divenuto davvero tale: particella indivisibile e vagante nel vuoto, priva di quella struttura che solo la socialità potrebbe darle) deve imparare a conoscere e gestire la propria solitudin e. È meno facile che in passato, ed è più facile fare confusione. Già nel 1950 il sociologo a m e r ic a n o David Riesman, in La folla solitaria, denunciava la finta socialità suburbana della vita americana, organizzata dall’esibizione di beni di consumo (l’automobile parcheggiata fuori, eventualmente la piscina sul retro) ma incapace di fornire vero sostegno reciproco: si è in tanti, e ci si fa pressione, ma non ci si aiuta. Due generazioni dopo, in un parossistico avvitamento, sono i social media a dar luogo a convivenza e vicinanza posticce. Ossessionati da migliaia di contatti, di visualizzazioni, di like e di «amici», i partecipanti a questa farsa si illudono di essere in una vasta e allegra compagnia, e la consapevolezza che si tratti di una menzogna affiora soltanto, a volte, come un inquietante, fastidioso malessere. Non è una forma di vita che posso approvare. È forte in me il rimpianto per l’essere umano, cioè per l’animale politico, integrato in una comunità che gli consenta di sviluppare le proprie potenzialità, che è oggi un lontano ricordo. Ma la via per tornare all’oggetto del rimpianto non può che passare per il tormento della solitudine, come la via per il Rinascimento dovette passare per eremiti e monasteri. Un primo passo, semplice a dirsi ed estremamente difficile a farsi, sarebbe rendersi conto che davanti a uno schermo siamo soli: che quelli provenienti dalla rete sono messaggi affidati a una bottiglia e lanciati nell’oceano, mittente il nulla. Istruiti da tale dura disciplina a cercare innanzitutto l’auto - sufficienza, potremo forse fare timidi passi verso nuovi, autentici incontri.

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