STUPIDA RAZZA

mercoledì 7 settembre 2022

La ferocia della guerra ucraina, scontro che cambia il mondo

 

L a ferocia della guerra ha un impatto feroce sulla deglobalizzazione. Perché – con le sue conseguenze economiche e militari, finanziarie e tecnologiche, politiche ed energetiche – l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia sta cambiando la meccanica e la fisiologia del mondo. O, meglio, sta imponendo una curvatura e una accelerazione a fenomeni in corso. Alcuni li ha cancellati. Altri li ha intensificati. Altri ancora li ha creati. La macchina saltata in aria a Mosca con dentro Dar’ja Dugina, la figlia di Alexsandr Dugin, l’ideologo del neo-eurasiatismo apprezzato da Vladimir Putin nel primo periodo della costruzione del suo potere. L’accendersi della controoffensiva degli ucraini per riprendere la città di Kherson. Sono tutte espressioni violente della guerra che operano, con la loro tragica episodicità e la loro metodica persistenza, sul sottostante del resto del mondo. Il battito della farfalla della guerra in Ucraina si può avvertire ovunque. La doppia dipendenza dell’Europa Il sistema manifatturiero europeo ha due dipendenze patologiche: energetica dalla Russia (il gas) e mineraria dalla Cina (le terre rare). La dipendenza dal gas russo – esito, anche, delle scelte strategiche della Germania e dei comportamenti collusivi di parte della sua classe dirigente con la “democratura” putiniana – alimenta una inflazione significativa. Questa inflazione può cambiare per sempre la quotidianità dei cittadini europei. E può destrutturare il sistema industriale continentale indebolendo la sua dimensione di piattaforma produttiva che sta tentando di mantenere le posizioni nella manifattura a medio-alto valore aggiunto nelle Global Value Chains del nuovo mondo post Grande Crisi del 2008, post crisi dei debiti sovrani del 2011 e post pandemia. Il problema, però, non è soltanto quello che sta succedendo. Il problema è pure quello che sarebbe potuto accadere e che, invece, con la guerra non è accaduto. La guerra ha infatti interrotto il processo di graduale integrazione del sistema economico ucraino nel sistema economico europeo. Le ragioni militari, le sfere di influenza fra le organizzazioni internazionali e le dinamiche interne alle classi dirigenti sono elementi preponderanti e visibili. Ma esiste anche la questione degli equilibri e delle egemonie tecno-industriali ed economicofinanziarie. È accaduto tutto pochi mesi prima della invasione russa. Il 13 luglio 2021, il vicepresidente dell’Unione europea Maroš Šefčovič è volato a Kiev. L’obiettivo era una alleanza tecnologico-industriale imperniata sulle terre rare: armi, automotive, fibre ottiche. L’accordo è stato raggiunto: ha firmato per la controparte il primo ministro Denys Shmyhal. L’Ucraina forniva, prima dell’invasione russa, il 90% del gas neon necessario per i chip elettronici montati sulle auto. Esiste – esisteva – una società di Odessa, la Iceblink, che produce – produceva – la maggior parte del neon del mondo. Il litio ucraino è molto puro: serve poca industrializzazione estrattiva. Il 6% del titanio del mondo è qui. Il 20% della grafite è qui. Terre rare e minerali preziosi per la manifattura europea in cambio di denaro e di digitalizzazione. La ragione strategica per l’Ucraina: con il North Stream 2, la pipeline fra la Russia e l’Europa voluta dalla Germania, l’Ucraina si aspettava un calo dei diritti di passaggio del gas dai suoi oleodotti. La ragione strategica dell’Unione europea: ridurre la dipendenza dalla Cina per le terre rare. Qualcosa, nei mesi prima dell’invasione russa, è dunque successo. Ma la storia è più antica. Perché molte altre cose sono accadute negli ultimi trent’anni. È caduto il muro di Berlino. È implosa l’Unione Sovietica. Putin, già funzionario del Kgb, opera a San Pietroburgo e a Mosca muovendosi fra politica, affari e deep state. Nel 1997, consegue un dottorato di ricerca all’Istituto Minerario di San Pietroburgo discutendo la tesi dal titolo «Pianificazione strategica dell’industria mineraria di una regione sotto il vincolo della formazione di una economia di mercato». L’importanza delle terre rare è fissata nella politica di Mosca dal suo discorso del 2016 che definisce questi metalli «critici per le capacità di difesa della Russia». La Russia è al quarto posto – dopo Cina, Brasile e Vietnam – per miniere di terre rare, ma produce solo il 2% del totale mondiale e soddisfa con le proprie riserve non più del 10% del fabbisogno nazionale: quasi la totalità dell’import proviene dalla Cina. Molte terre rare si trovano in Siberia, prive delle strutture industriali con cui vengono estratte e lavorate. Nel luglio del 2019, Putin autorizza la riduzione dall’8% al 4,8% del prelievo fiscale sui profitti per le imprese impegnate in questo business. Due anni dopo l’Ucraina e l’Unione europea stringono una alleanza strategica. Tre anni dopo - quest’anno - la Russia invade l’Ucraina. Litio e titanio, bauxite e cobalto sono nel Donbass, il primo epicentro della contesa. Il battito di ali della guerra si avverte ovunque L’invasione russa ha un impatto feroce sulla debolezza energetica strutturale e sulla fragilità negli approvvigionamenti dell’Europa, che dalla scoperta dell’America nel 1492 è stata il fulcro delle integrazioni produttive e commerciali di pezzi lontani del mondo. Scriveva nel 1919 John Maynard Keynes nelle Conseguenze economiche della pace, a proposito dell’Europa di prima della Prima guerra mondiale: «Chiunque a Londra poteva ordinare per telefono, bevendo a letto il tè della mattina, qualsiasi prodotto del mondo intero, in ogni quantità desiderata, e confidare in una consegna in tempi brevi, sull’uscio della propria casa». Cento anni dopo le parole di Keynes, con la curvatura impressa dalla guerra in Ucraina alla deglobalizzazione il pericolo è che, in tutta Europa, un cittadino non possa ordinare nulla perché impegnato ad usare i suoi risparmi per saldare la bolletta dell’energia di casa e che un imprenditore – se la sua azienda non vive una crisi di finanza di impresa troppo paralizzante – intensifichi con le sue scelte di approvvigionamento la dipendenza della manifattura continentale e inglese dalla Cina. La questione africana Nessun continente ha beneficiato come l’Africa dell’ultima globalizzazione. E nessun continente può subire il maggiore dei danni dalla guerra in Ucraina: non solo la morte per le armi, ma anche la morte per la fame. L’interruzione del commercio del grano dall’Ucraina verso l’Egitto e la Libia, il Marocco e la Tunisia, il Sahel e il Corno d’Africa ha una doppia ferocia: la ferocia dell’assenza del pane sui banconi e agli angoli dei mercati e la ferocia della dinamica dei prezzi impazziti che, anche quando il pane c’è, rende impossibile nutrirsi a donne e uomini, bambini e vecchi. La guerra in Ucraina rischia di fare regredire processi virtuosi di sviluppo che durano da vent’anni. E, nel combinato disposto di tutti questi elementi diretti e indiretti, è in grado di innescare nuovi moti migratori da Sud a Nord, facendo del Mediterraneo un deserto di acqua e paura, aspettative e tensioni. Nelle contraddizioni e nelle durezze di un continente che è un insieme di mille mondi diversi, le statistiche degli ultimi venti anni mostrano come l’Africa si sia progressivamente integrata nell’economia internazionale, acquisendo prosperità (lectio ottimistica) o riducendo povertà (lectio realistica). Secondo le elaborazioni su dati CEPII-BACI, l’Africa non è stata più soltanto la terra triste che ha custodito petrolio e gas, terre rare e oro, diamanti e argento. È diventata anche un soggetto attivo. La quota del commercio mondiale in capo all’Africa è salita dal 2,7% del 2000 al 3,1% del 2018. La quota del commercio mondiale dei beni intermedi, che identifica il grado di interconnessione fra i sistemi produttivi, è aumentata dall’1,8% al 2,5 per cento. La stessa dinamica si osserva circoscrivendo il campo alla manifattura: la quota del commercio mondiale dei beni manifatturieri riferita all’Africa è salita dall’1,4% del 2000 all’1,8% del 2018. Quella dei beni manifatturieri intermedi dall’1,7% al 2,4 per cento. Il valore aggiunto generato dall’Africa ha per il 75% una matrice puramente africana. E questo, fra il 2000 e il 2018, è un dato stabile. Il blocco occidentale ha trascurato l’Africa: il valore aggiunto africano generato dall’America è sceso dal 4% al 3,2 per cento; quello generato dall’Europa è calato dall’11% all’8 per cento. Il miglioramento strategico-qualitativo della fisiologia economica del continente africano ha una radice cinese. Il valore aggiunto africano di origine cinese è aumentato dall’1% al 3 per cento. Tutto questo potrebbe però essere deviato dal problema del grano ucraino: è concentrata in Africa una buona parte delle 47 milioni di persone in più che, secondo la Fao, possono soffrire la fame per il grano fermo nei silos e nei porti sul Mar Nero. L’assenza forzata di cibo crea disperazione in ogni essere umano e attiva grandi processi storici. La crisi alimentare è stata all’origine delle rivolte delle primavere arabe. La fame nera rischia di interrompere la linea di sviluppo di un intero continente e di spingere verso Nord nuove ondate di migrazioni, in una chiusura del cerchio che unisce l’Africa e l’Europa e che rappresenta la maggiore incognita di una fase della deglobalizzazione segnata drammaticamente – anche – dal sigillo della guerra in Ucraina.

Nessun commento:

Posta un commento